lunedì 23 novembre 2015

Dov'e' la mia casa?


Questo post e' stato pubblicato su www.amichedifuso.com, il sito delle donne italiane all'estero, e sull'Antologia AA.VV. L'Altro, opere sulla diversita' del genere umano, di BraviAutori.it, 2016

 "La patria di un uomo che può scegliere è là dove arrivano le nubi più vaste" A. Malraux

L’inglese l’ho sempre amato e non solo come lingua. Shakespeare, Jane Austen, Joyce… sono autori che continuano ad affascinarmi. E infatti in inglese mi ci sono laureata e ho dedicato parte della mia vita ad insegnarlo agli altri. Ma gli inglesi? No, quelli proprio no: smilzi e pallidi come un lenzuolo. Quando mi hanno presentato colui che sarebbe diventato mio marito è proprio così che ho pensato: non fa per me! Ma come dice il vecchio adagio? Mai dire mai!

   Ed è così che sette anni dopo mi ritrovo a vivere tra i visi pallidi, nel Paese del vento e della pioggia. Le mie fedeli amiche italiane non perdono occasione per rammentarmelo: “ah…ah…ah… chi l’avrebbe mai detto?” Spesso me lo chiedo anch’io, chi l’avrebbe mai detto? L’espatrio non era certo nei miei piani. Comunque non al seguito di un uomo. Mi ero appena sistemata in un nuovo appartamento così da essere in posizione strategica tra il posto di lavoro e i luoghi per le attività del mio tempo libero. Insomma ero organizzata in una vita da single, libera e indipendente, abituata ad avere l’armadio zeppo e il frigorifero costantemente vuoto.

   Il villaggio in cui vivo ora non conta neppure duecento anime. Si trova nella Valle di Glamorgan a Sud del Galles, dove ci sono più pecore che abitanti. Al centro del paesino c’è uno stagno con due coppie di anatre germano reali, dal quale si dipartono a raggiera sei vicoli abitati. Abbiamo una chiesetta del 1.100 e un pub quasi altrettanto vecchio che ha appena riaperto i battenti dopo due anni di inattività dovuta ai pochi avventori.
   La vita qui scorre tranquilla tra chiacchiere e tea parties. Trovo che i gallesi siano molto friendly, senza il riserbo e l’impassibilità che spesso contraddistinguono i cugini inglesi. Capita infatti che te li ritrovi in cucina, proprio così, entrati senza preavviso…. un po’ come succedeva da noi prima che subentrasse la fobia dei ladri. Quando vado a farmi un giro in bici (tempo permettendo!), in venti minuti raggiungo la costa frastagliata e mi inebrio la vista e il cuore. Mi riempio i polmoni del sapore salmastro dell’oceano.
    Vabbé, all’inizio non è stato facile. Direi che è come imparare ad andare in bicicletta: cadi, ti fai qualche livido ma poi ti rimetti in sella e ci riprovi, finché non trovi l’equilibrio. E’ allora che ti godi il senso di libertà. A volte succede anche che mi senta un po’ tagliata fuori: la capitale è un miraggio lontano (andare a Londra da qui è un’impresa) e l’Italia non è sempre facile da raggiungere, devo affidarmi alla Ryanair, compagnia aerea che però smette i voli da novembre a Pasqua.
   Adesso, se proprio la devo dire tutta (la verità) ci sono certe idiosincrasie degli inglesi che ancora non riesco a mandar giù. Vanno sempre a sinistra –a piedi, in bici, in macchina, a cavallo, a nuoto, per le scale – fuorché in politica (non secondo i canoni europei). E poi affettano il panettone come fosse prosciutto crudo e il crudo come fosse un panettone. Senza parlare del fatto che sono sempre bastian contrario: l’euro NO, l’ Europa? … uhm… Not sure, NO feste comandate infrasettimanali, NO miscelatori per i rubinetti dell’acqua calda e fredda e … NO bidet! Giusto per elencarne qualcuna…
   Ma alla fine mi dico “eddai, che importanza hanno tutte queste bizzarrie britanniche?” E’ qui, precisamente in questa terra di Celti e di nomi impossibili (mi ci sono voluti due anni solo per riuscire a pronunciare il nome del mio villaggio), è proprio qui, tra i pascoli e le nuvole sempre in movimento, che ho trovato la mia serenità, il rispetto, l’amicizia, l’affetto e soprattutto … l’amore.
Ho trascorso le vacanze nella mia cittadina natia, nel Veneto orientale. Come sempre in pochi giorni devi farci stare un sacco di cose, la famiglia, gli amici. E’ bello riassaporare vecchi ricordi, cibi e aromi; rivedere luoghi e persone care. Insieme si chiacchiera, si mangia, si ride. Ma ecco che, inaspettatamente, una parte di me si estranea. D’un tratto mi sento un po’ the odd one out, come dire un’intrusa nel gruppo. Sono qui tra gente che conosco da una vita ma è come se non ci fossi.
   Il diavoletto che è dentro di me riaffiora e comincia a guardarsi attorno con quel senso critico che avevo sempre destinato agli inglesi. Così ora fatico a ritrovarmi nelle infinite discussioni con i miei connazionali, nelle solite diatribe politiche italiane (ma perché si scaldano tutti così tanto?) o negli infuocati discorsi sugli extracomunitari (ma sono davvero la causa dei problemi italiani? Hanno mai provato questi signori che cosa significa vivere all’estero ed essere tu stessa una migrante?) o ancora una serpeggiante arroganza scambiata per orgoglio nazionale…
   Dov’è la mia casa? mi vien fatto di chiedermi allora come il vecchietto nel film Amarcord di Fellini. Mi sento anch’io immersa nella nebbia, in una foschia emozionale che confonde il mio senso di appartenenza. Dov’è la mia casa, in Gran Bretagna dove vivo o in Italia dove sono nata e cresciuta? Finirà mai questo zigzagare fisico ed emotivo tra una sponda e l’altra del mare? O forse questo sentimento che provo si riconduce in realtà ad un cerchio, metafora di un viaggio che mi riporta perennemente a ripartire e a ricominciare? Pensieri ad alta voce …
    Your home is with me, no matter where we are. La tua casa è con me, non importa dove siamo” suggerisce serafico mio marito dalla sua armchair…

E tu che ne pensi? Dov'e' la tua casa?

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mercoledì 8 luglio 2015

E vissero felici e contenti


“Laura, vieni in chiesa domenica mattina?” L’invito di Kathy, la moglie del nostro vicario (a differenza dei ‘cugini’ cattolici i sacerdoti anglicani sono sposati con prole) mi aveva colto di sorpresa. Ci eravamo incrociate per caso al banco del pesce da Tesco, il locale supermercato.
   “Ma, veramente....” cercai di tergiversare.
   “Come on" m'incalzo' lei "ci sara’ il pet service. Credo che ti piacera’...”.
   “Pet... cosa?” le chiesi perplessa. Sapevo che pet e’ il termine generico per animali domestici e che service significa messa. Ma che senso aveva... la messa degli animali?
   “Certo” mi spiego’ Kathy paziente, intercettando forse la titubanza di un’italiana cresciuta in un diverso ambiente (nello specifico cattolico di tradizione) e non sempre pronta ad abbracciare manifestazioni della cultura autoctona. “Ogni anno celebriamo nella chiesetta del villaggio una messa speciale per festeggiare i nostri fedeli amici animali. Per la maggior parte si tratta di compagni a quattro zampe, grandi e piccoli: cani, gatti, conigli, tartarughe ... ma anche pesciolini rossi o pappagallini. Insomma tutti gli animali che condividono la nostra quotidianita’ sono invitati all’altare per celebrare God’s Creation”.
   Non era la prima volta. Puntualmente venivo invitata non solo alla messa domenicale ma anche a tea e soup parties tenuti all’interno dell’antica chiesetta, nello spazio tra l’altare e i banchi dei fedeli. Sono appuntamenti in cui la piccola congregazione si ritrova per sorseggiare il te’, assaggiare dolci o degustare zuppe fumanti, il tutto organizzato dalle donne del villaggio. Lo scopo e’ quello di conoscersi, socializzare, rafforzare lo spirito comunitario e raccogliere donazioni per la chiesa.
   Nonostante i dichiarati buoni propositi, queste iniziative mi hanno spesso lasciata sospesa in un dubbio amletico: se da un lato apprezzo il desiderio di volermi includere nel loro mondo, dall’altro tendo a considerarle delle stravaganze anglosassoni. Robe da non credersi - pensai allora tra me - mangiare e bere in chiesa e ora anche gli animali ... Ma guarda questi quante se ne inventano pur di riempire i banchi della chiesa...  Infatti c’e’ da sapere che i britannici raramente mettono piede nei luoghi di culto se non per matrimoni, battesimi e funerali. Secondo una recente statistica, solo il 6% della popolazione attende ai riti religiosi, con un’eta’ media di 51 anni.  
   A meta’ tra lo scettico e il curioso decisi comunque di accettare l’invito della ‘vicaria’. Se non fosse che di pets non ne avevo. La mia gatta, la storica Bigia, l’avevo lasciata a casa di Franco, il mio vicino, quando mi trasferii in Galles cinque anni prima (non senza un comprensibile trauma affettivo). Franco l’adora, ricambiato. Tant’e’ che da allora la Bigia non mi degnava piu’ di uno sguardo. Quando rientravo in Italia lei faceva la smorfiosa e scappava via oppure, se ero fortunata, arruffava il pelo e mi piantava le unghie nella pelle. Insomma, non mi aveva ancora perdonato lo sgarro di essermene andata.  Cosi’ quella domenica pensai che una benedizione dal vicario le avrebbe fatto proprio bene. E partii per il pet service con la foto della Bigia.
   




 
Bigia

  
In chiesa sembrava di essere entrati nella sala d’attesa di un veterinario. Stesso odore animale, cani scodinzolanti, occhi felini che ti scrutavano, criceti a correre forsennati su una piccola ruota e poi pesciolini rossi in vaschetta, conigli e quant’altro...  Solo che qui avevano tutti un aspetto piu’ rilassato e felice, soprattutto i proprietari per la maggior parte bambini.      Be praised, my Lord, through all Your creatures... Come non riconoscere il Cantico delle Creature di San Francesco: Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature ... Mi ricordai allora che in terra italica, a Siena, si benedicono i cavalli in chiesa prima del Palio e poi rividi antichi affreschi e vecchie letture secondo le quali in passato nelle nostre chiese si benedivano mucche e porcelli perche’ la morte di uno di questi animali avrebbe causato un disastro economico alla famiglia. Cosi’ con questo pensiero in mente mi avvicinai all’altare tra adulti sorridenti, bimbi esultanti e animali festanti per la benedizione del vicario e un corale Hosannah, Alleluiah!
   Tutto questo succedeva esattamente un anno fa. Quest’anno non sono potuta recarmi all’annuale appuntamento del pet service. Peccato, perche’ e’ successa una cosa che ha dell’incredibile. Ora ve la racconto per filo e per segno, cosi’ come me l’ha riferita Kathy, la moglie del vicario, incrociata anche questa volta per caso dal panettiere.
   Due bambini hanno chiesto al vicario di poter tenere in chiesa uno speciale wedding, ossia il matrimonio tra i loro due cagnolini, Pepper e Wilf. Cerimonia di nozze che si e’ celebrata con la benedizione della coppia nuziale seduta su apposite sedie di velluto rosso, la chiesa decorata per l’occasione e le foto di rito per immortalare l’evento. Il vicario ha poi pronunciato una preghiera speciale per i due insoliti innamorati, presente la comunita’di fedeli. Improvvisamente, ad omaggiare i novelli sposi, si sono presentate alla porta della chiesetta (ospiti non invitate) le quattro papere dal vicino stagno, in fila indiana, impettite e scintillanti nella loro livrea. E per un attimo si e’ temuto una cagnara (e’ proprio il caso di dirlo).



Wilf e Pepper alla cerimonia nuziale

   Chissa’ se durera’ questo sodalizio canino - mi chiedo ora - dato che i cani sono notoriamente dei maschi infedeli...
Ah, dimenticavo di dirvi che sara’ pure una coincidenza, ma dal giorno della benedizione della foto al pet service, la Bigia (che ha compiuto a giugno 14 anni suonati) sembra diventata un tantino piu’ mansueta...


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E vissero felici e contenti!


 

 

domenica 14 giugno 2015

Va' dove ti porta il cuore


Guest Post: Serena Australia, www.amichedifuso.com

 

 

Sapete?
Non siamo tutti uguali.
Non cerchiamo tutti le stesse cose.
Dovrebbe essere scontato.
Non lo è.


E’ una cosa dannatamente difficile da far capire.

Il nero e il bianco funzionano finché sei piccolo, magari fino ai tempi dell’Università.
Inizi a vedere le sfumature di grigio quando arrivi a qualche piccolo compromesso sul lavoro, lavorando fianco a fianco con una persona che ti piace poco o quando vai avanti con il tuo ragazzo malgrado qualche sua pecca.
Che lui magari lascia i calzini per terra e tu avevi promesso a te stessa che a te nessuno l’avrebbe mai fatta una mancanza simile.
Ma sei arrivata alla fase delle sfumature e certi tuoi spigoli li hai smussati.
Questo è il gioco.


Mi hanno detto che è strano.
Ma non lo è.
Me l’hanno detto in pochi, in verità.
Ma l’hanno fatto.
Perché sono nove mesi che siamo qui e non rimpiangiamo niente, non torneremmo mai indietro.
Perché penso all’Italia e non provo nostalgia.
Provo ben altro.
Provo sollievo!
Non è triste?
Non è orribile?
Era casa mia.


Siamo diversi, l’ho detto, questa sono io e questo è ciò che provo.
Mi sento impopolare a gridare ad alta voce, o peggio a lasciarne traccia qui, nero su bianco, che l’Italia non è per me.
E che no, non mi sento per questo migliore di altri.
Di chi è rimasto.
Di chi se ne è andato e poi è tornato.
Men che meno di chi si sente a casa lì dove è nato e cresciuto.


Sono solo io, concentrata su quello che sento.
Sento che l’Italia non è cosa per me e che non ci tornerei.
Ho imparato ad ascoltarmi.
Ed è meno faticoso che dover seguire orme e valori degli altri.


“Io non lo farei!”
Non farlo!
Non sarò io a dirti come vivere o cosa provare.


Ho altre cose a cui badare.
Infatti sono qui.
Dall’altra parte del mondo.
Beata, anche nove mesi dopo.
Vorrei potervi invitare tutti in Australia e farvela vedere.
Farvi scoprire ben più di quello che fino ad ora ho visto, farvela girare come per ora non ho potuto fare, farvela guardare al tramonto, di notte con le stelle e di giorno con il sole.
Vorrei farvi provare tutti i locali nei quali mi sento di casa, assaggiare quei piatti di cui non so più fare a meno.
Trascinarvi per le strade del centro per indicarvi quell’artista di strada che mi piace tanto, che ci fermiamo ad ascoltare assieme ad altri come noi, seduti sui gradini o molleggiando sui piedi.
Beati


Vedeste i parchi che ho visto, l’erba che ho calpestato, il sole e tutta la pioggia presa.
Vedeste il mare e le spiagge immense.
Il cielo.
I grattacieli.
Le luci.
La natura.
La frutta strana, il bush, i koala, i wombats e gli altissimi canguri.
Vedeste la gente di qui, che ti parla, che ti ferma, che ti sorride.


 




Vorrei farvi vedere le persone che ho incontrato, catapultarvi nel cuore di certe serate e farvi sentire come mi sento io.
In pace, felice, sollevata.
Al posto giusto.


Per me l’Australia è stata una scommessa.
Siamo partiti lasciando tutto perché tutto avevamo, convinti di trovare lavoro e di poter ricominciare.
Mi guardo indietro e penso che eravamo due pazzi.
Due come noi!!
Con il passo sempre appesantito da giganteschi ed inutili piedi di piombo.
E invece basta!!
Finalmente liberi di pensare.
Avevamo paura, certo, ma ci credevamo.
Siamo arrivati qui ed è successo.
Abbiamo trovato lavoro, ci siamo integrati, fatti tanti amici e tirato più di un sospiro di sollievo.
E allora quelli che ci chiamavano pazzi, non tutti, certo, adesso ci vedono sempre sorridenti e dicono che siamo stati coraggiosi.
Cosa che siamo, sì, ma non come intendono loro.


Vorrei farvi vedere l’Australia come la vedo io perché forse vi sarebbe più facile capire che per me questa è Casa.
Casa è il luogo dove vuoi vivere e a cui senti di appartenere.
Dove vuoi lasciare le tue cose.
Ed io ne ho tante di cose che aspettano di ritrovare il proprio posto.
Casa è dove ti senti di edificare.
Di costruire.
Ed io lo voglio così tanto e lo voglio qui.


Resto una piantina che vuol mettere le radici, che tende ad appropriarsi del terreno che le piace, quando lo percepisce come morbido e familiare.
Mi piace viaggiare, mi piace preparare e disfare la valigia ma non pensavo ad una vita da expat.
Confidavo in una spedizione unica, noi e le nostre cose, indirizzati verso quel posto da chiamare Casa.
Che crediamo di aver trovato.


Quindi è con difficoltà che scrivo che forse, probabilmente, sicuramente, tra qualche mese mi leggerete dalla Scozia e non più dalla mia Melbourne.
Non più dalla mia Australia.


Stasera guardo la mia città e penso che assieme siamo perfette.
Che mi mancherà per sempre e non la dimenticherò mai.
L’ho scelta come Casa mia tra tante dimore possibili.
Sì.
Cercheremo di tornare.
Ma chissà.
Dopotutto pensavamo di restare.
E invece…
Andiamo via.


Anche se era il mio posto.


E voi siete dove vorreste essere?

Non dovremmo proprio mai smettere di chiedercelo.


Copyright by Serena Australia, pubblicato su www.amichedifuso.com
 

sabato 23 maggio 2015

103 anni e non sentirli


How are you today?
Pubblicato sulla rivista Trovarsi, Associazione Anziani e Pensionati Giorgione, Ottobre 2015


La mia vicina di casa si chiama Edie e il 7 di maggio ha spento centotre’ candeline. Ora immaginiamo la tipica nonnina, un po’ fragile e malferma nelle gambe che con l’eta’ ha perso si’ una certa dimestichezza con date, numeri e nomi, ma che ha raggiunto, grazie alle innumerevoli esperienze di vita, il dono della ponderatezza e della cordialita’. Insomma un’anziana signora dalle mille rughe ma dal cuore grande e benevolo.  Giusto? Bene, niente di tutto questo!
   Edie ha la capacita’ di freddare con una sola delle sue sulfuree battute ogni stereotipo sull’anziano che potrebbe albergare nella mente di chi, per ingenuita’ e un po’ per inesperienza, non ha ancora avuto la fortuna (o sfortuna) di incrociare il suo cammino. C’e’ un aggettivo in inglese che la definisce bene, cantankerous, detto di persona dal carattere spigoloso e irascibile, che in veneto si traduce semplicemente con... cancara. Quindi quel pomeriggio del 7 maggio, son partita preparata per andarla a festeggiare e armata di ...santa pazienza!

   Edie se ne stava seduta sulla sua poltroncina a fiori, attorniata da parenti e vicini, che a turno si facevano fotografare con l’ultracentenaria. Lei sorrideva inorgoglita (chi non lo sarebbe?), sul piatto una fettina di torta al cioccolato, il te’ e l’immancabile... bicchiere di whisky. Si perche’ Nan, ovvero nonna come la chiamano i nipoti con i quali vive, e’ solita accompagnare la consueta tazza di te’ anziche’ con il latte (come vuole la tradizione inglese) con una buona dose di ...whisky. Rito che si ripete giornalmente al mattino, pomeriggio e sera. Fate un po’ i conti e capirete che la bisnonna si scola quasi una bottiglia di whisky a settimana...

   Non ha un brand preferito. Scotch, malt, bourbon... fanno tutti al caso suo. Tant’e’ che i nipoti preoccupati del vizietto della signora (e su stretto consiglio del medico) un bel giorno decidono di nasconderle la bottiglia. Al che’ Nan, che questa proprio non riusciva a mandarla giu’, la mattina successiva ha infilato nell’ abituale tazzina un biglietto da 10 sterline... con il chiaro invito (in seguito reso esplicito a gran voce) a provvedere immediatamente a rifornirla dell’amato superalcolico, pena la minaccia di cancellare l’intera famiglia dal suo testamento. Immaginate chi l’ha vinta...
   A proposito di testamento, Edie ha gia’ lasciato scritto nero su bianco, tra le varie cose, che il giorno (lontano) in cui dovesse esalare l’ultimo respiro, il suo corpo non dovra’ essere tumulato o cremato bensi’ affidato alla scienza medica, esattamente alla Cardiff University Hospital i cui esperti avranno il compito di vivisezionare  il suo cervello per cercare di carpire il segreto della sua longevita’. Sopra il letto Nan ha una placca con la scritta I intend to live forever, Intendo vivere per l’eternita’.

   Edie e’ nata nell’anno della sciagura del Titanic, il 1912, all’epoca dei fasti dell’Impero Britannico. In queste valli rurali del Galles, ai confini della ricca e urbana Inghilterra, ha trascorso tutta la sua vita. Sopravvissuta a due guerre mondiali e suddita di ben cinque monarchi, e’ stata testimone della rapida ascesa economica del Galles (grazie alle industrie del carbone e dell’acciaio), e del suo altrettanto rapido declino. Qui ha conosciuto Agatha Christie, che veniva regolarmente nella Valle di Glamorgan per trovare la figlia Rosalind.
   Ma torniamo alla festa di compleanno.
   “Am I the oldest one in Wales? Sono la piu’ anziana del Galles?” ho sentito che chiedeva al nipote con quella sua caratteristica voce dal tono asciutto e un po’graffiante.  
   “No...” le risponde lui sorridendo “... non credo.”
   “Well...” intima Nan con sguardo contrariato, “di’ agli altri di sbrigarsi a morire cosi’  saro’ io la piu’ anziana in Galles!”
  
   Quando e’ il mio turno per omaggiarla sono alquanto sulle spine. Mi presento (non si ricorda mai di me) e le parlo lentamente. Ma lei non sembra prestarmi attenzione. Che sia il mio accento non perfettamente British? Oppure non ci sente bene? Cosi’ alzo un tantino la voce e le ripeto, How are you today? Are you enjoying your birthday? E’ allora che Edie si gira e mi punta i suoi occhietti verdi da folletto indispettito: “My dear” sbotta “I’m old, I’m not stupid. Saro’ anche vecchia ma non sono stupida.” Al che decido di togliere il disturbo.
  
   Ricordo ancora il grande Birthday Party organizzato dal nostro villaggio per festeggiare i suoi cento anni. Gli uomini allestirono un grande tendone bianco sul prato di fronte alla sua casa e noi donne ci alternammo ai fornelli. Quel giorno Edie era nel suo elemento. Sfoggiava il telegramma di auguri ricevuto per l’occasione da Sua Altezza Reale la Regina Elisabetta. Le maggiori distillerie inglesi di whisky (su esortazione dei giovani nipoti) le avevano inviato in regalo una cassetta di whisky ciascuna, alcune con stampato il nome Edie sulle bottiglie!

   Per l’occasione arrivarono alcune autorita’ politiche e ognuna di loro si alternava alla sedia accanto alla poltrona di Nan per ossequiarla. Quando fu il turno di un noto Parlamentare gallese che, presenti giornalista e fotografo, le stava esprimendo tutta l’ ammirazione e il rispetto per la vetusta eta’, lei si giro’ di scatto verso il nipote, alzo’ il tono di voce e ordino’: “Mandalo via immediatamente perche’ mi sta annoiando a morte!” La matriarca di quattro generazioni ha senz’altro il diritto di infischiarsene del ... politically correct.
   I festeggiamenti per il centenario andarono avanti fino a tarda sera, con fuochi d’artificio e la musica di una giovane band locale. Ad un certo punto Nan decise che era arrivata per lei l’ora di ritirarsi, ma non riuscendo a chiudere occhio per il gran baccano decise che ne aveva abbastanza e ... stacco’ la spina. Si’ proprio la spina che collegava musica e luci, lasciando tutti gli ospiti del villaggio improvvisamente al buio e in rigoroso silenzio.

   Che dire? Lunga vita alla signora!

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Festa per i 100 anni
Birthday Party al villaggio





sabato 4 aprile 2015

Galles: Pecore e papere





Domanda: “ Che ci faccio qui, in Galles?” Risposta: “Conto le pecore!”
Dalla mia finestra, che si affaccia su una distesa di pascoli nella Valle di Glamorgan, di pecore ne vedo a bizzeffe. A contarle pero’ non ci riesco. Sono un’infinita’ di puntini bianchi a 360 gradi, come tante costellazioni luminose in un grande cielo verde.

   In questi giorni hanno partorito e le vedi raggruppate a piccoli nuclei famigliari. Spesso con due, a volte con tre agnellini a testa. L’altro giorno, passeggiando lungo la stradina di campagna, assorta nella mia nuvoletta di bizzarrie mentali, ho improvvisamente notato un involucro umido e viscido cadere nell’erba con un impatto sordo. Velocemente si sono divincolate delle zampette lunghe e traballanti, che si sono raddrizzate grazie alle piccole spinte di incoraggiamento del muso di mamma pecora. Assistere all’attimo in cui nasce la vita mi ha riportato a terra, azzerando i miei arzigogoli cerebrali. E mi ha riempito di buonumore.

    Secondo un vecchio detto popolare gallese, se le mucche o le pecore sono accovacciate sul prato, significa che la pioggia e’ imminente. Diciamo allora che  in questa terra le pecore sono piu’ spesso distese che in piedi...  La pastorizia gioca un ruolo importante nell’economia del Paese (esattamente il 20% dell’economia agricola). Le statistiche riportano che in Galles ci sono quasi quattro pecore per abitante, in tutto 11 milioni di pecore per 3 milioni di abitanti. Sara’ per questo che in tutto il Regno Unito i pastori gallesi sono l’ oggetto prediletto di barzellette dal tono piuttosto spinto. Un po’ come da noi lo sono i pastori sardi.

   L’agnello e’ il piatto nazionale del Galles. Lo fanno arrosto e servito con le patatine, soprattutto in periodo pasquale. Sinceramente non fa per me. Amo gli agnelli e non riesco a masticarli. La moglie del farmer qui vicino (dove vado a rifornirmi di uova fresche) mi ha detto che non li mandano al macello in tenera eta’. Devono aver superato i 20 chili di peso, quindi i 3 o 4 mesi di vita (e’ gia’ qualcosa in piu’ rispetto ad altri Paesi come l’Italia...) Nel frattempo sono liberi di pascolare all’aperto in tutti i mesi dell’anno.

   Capita che le pecore te le ritrovi in mezzo alla strada,come sulla strada costiera di Ogmore-by-sea. Sbarrano il passaggio alle auto, un po’ come le mucche sacre in India. E’ quando le pecore hanno il diritto di pascolo nelle cosiddette ‘Common Land’ ossia nei terreni non recintati gestiti dalla collettivita’ e destinati alla  pastorizia. Il loro e’ un diritto antico, che risale addirittura al Medioevo, prima che entrasse in essere la proprieta’ privata. E cosi’... largo alle pecore. Ti devi fermare e cedere il passo.

   Oggi fa notizia l’autobiografia di un pastore inglese che vive nel Lake District. La zona e’ considerata terra idilliaca, resa celebre dai versi di poeti romantici come Wordsworth e Coleridge. E’ oggi per gli inglesi la meta turistica per eccellenza. Ma se pensate che la vita di un pastore, seppur giovane e moderno, abbia qualcosa di romantico –dice James Rebanks, l’autore di The Shepherd’s Life -scordatevelo. Lui vi fa un rendiconto delle asprezze della quotidinita’ campestre, delle sue giornate basate ancora fermamente su ritmi stagionali e tradizioni antiche tramandate di generazione in generazione per centinaia d’anni.  “Molti giovani cercano disperatamente di lasciare questa terra – racconta James”. La vita di un pastore e’ dura, soggetta ai rischi del tempo soprattutto oggi con i repentini cambiamenti climatici. Il guadagno non e’ sempre assicurato. “Ma la mia, e’ la storia di uno che cerca disperatamente di restare in questa terra.”

    Qualche tempo fa e’ venuta a trovarmi mia sorella dall’Italia. Era alquanto stupita: “ma che ci fanno i gallesi con tutte ste pecore? Ci fanno la lana?” Ha voluto che l’accompagnassi in un negozio locale per comprare lana per i suoi lavori a maglia, ma i gomitoli avevano l’etichetta ‘made in Italy’. “Non ci posso credere!” diceva tra se’ incredula. Ma poi ecco, vede la scritta Cooper Lane (che tradotto significa Vicolo Cooper) e si ricrede, lei che l’inglese non le e’ mai andato a genio: “To’... che ti avevo detto? Guarda un po’ quel segnale: Cooperativa lane...! Dai che finalmente posso comprar la lana da portarmi a casa”. Poi ci siamo fatte una bella risata.

   Oggi tutte le volte che torno in Italia e incontro per strada qualcuno che mi chiede: “Che cosa fai di bello in Galles?” Rispondo sorridendo: “Mi diverto a contare le pecore." Uno... due... tre... E a scrivere.


Pubblicato sulla rivista Trovarsi, Associazione Anziani e Pensionati Giorgione, estate 2015

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sabato 21 marzo 2015

Liverpool: Beatles e Surrealismo

 





 Lo chiamano Beatles Pilgrimage, il Pellegrinaggio alla citta’ dei Beatles. E’ un viaggio a pacchetto ai ‘luoghi-santuario’ dove nacquero, vissero e si esibirono i Fab Four. Ultimamente sembra andare molto di moda e cosi’ quando mio marito mi dice di avere un business meeting a Liverpool l’indomani mattina, decido di accompagnarlo. Da ragazzina ci scambiavamo i versi di Let it be di nascosto sotto i banchi di scuola. La cosa mi emoziona.

    Dopo tre ore non-stop in auto raggiungiamo Liverpool. Picchi di palazzi antichi si dividono lo skyline con moderni cubi di cristallo. Ho letto che la citta’ e’ stata quasi completamente ricostruita dopo i massicci raid aerei tedeschi nel secondo conflitto mondiale. Oggi sembra rivivere un momento di boom  edilizio: altissime gru pendono dal cielo color metallo. Ci addentriamo a sobbalzi nel traffico cittadino. Il nostro albergo ha un nome evocativo,  Hard Days Night Hotel -unico al mondo interamente ispirato ai Beatles- cosi’ recita la pubblicita’.  Si trova nel cuore pulsante del Beatles Quarter accanto al mitico Cavern Club, dove la band era solita esibirsi prima di raggiungere fama stratosferica.

   Visto dall’esterno l’albergo e’ una scintillante cattedrale in stile vittoriano, con elaborati stucchi alle facciate e le statue di Paul, John, George e Ringo che svettano alte sul cornicione. L’ambiente interno e’ invece piuttosto cupo, dai toni retro’ del bianco e nero. Note soffuse di Hey Jude. Vecchi cimeli, memorie e ‘reliquie’ degli anni 60 coprono ogni centimetro quadrato della hall. Percepisco un’aura sacrale... e’ quasi soffocante. Dozzine di spartiti di musica pendono dal controsoffitto della reception. Yeah yeah yeah... i volti evergreen dei Golden Boys  mi sorridono giganteschi, incorniciati dai caratteristici ciuffi, i colletti biancchi inamidati e la cravattina nera. Ci viene assegnata la camera Paul Mac Cartney.

    E’ gia’ mezzogiorno. Per visitare la citta’ non mi restano che poche ore, prima che scenda il buio. Decido di infilarmi in un Sightseeing bus, uno di quei pullmann scoperti con ‘cicerone’ automatizzato per turisti frettolosi. Lentamente ‘scivoliamo’ tra i maggiori punti d’interesse. Mi resta impressa la modernissima chiesa cattolica con le quattro campane intitolate ai quattro evangelisti ma ribattezzate dai turisti Paul, John, George e Ringo.

   Respiro il passato glorioso e insieme scomodo della citta’. Fu nel 18mo secolo la capitale del commercio degli schiavi e del cotone, al centro del Golden Triangle, porto atlantico di carico e scarico tra la Louisiana (dove le navi partivano cariche di cotone per essere lavorato nelle industrie tessili d’ Inghilterra) e l’Africa (dove venivano caricati gli schiavi da deportare nelle Americhe). Da Regina dei mari, oggi Liverpool e’ la Regina del pop-rock, del turismo e della cultura (fu capitale europea della cultura nel 2008).

    Declino la possibilita’ di visitare la casa dove nacque e il letto dove dormi’ John Lennon ... o il museo dedicato alla storia dei Beatles... Per il momento la Beatlesmania ha raggiunto il mio livello di saturazione. Raggiungiamo il vecchio porto dai caratteristici fabbricati in mattoni rossi, completamente ristrutturato, e opto per la galleria d’arte moderna Tate Liverpool. Vi e’ esposta la prima mostra antologica dedicata a Leonora Carrington, l’ultima esponente del surrealismo, morta ultranovantenne pochi anni fa.

   “Italiana?” mi chiede il bigliettaio. Poi mi da’ un biglietto d’entrata ridotto. Potere dell’italianita’ nel mondo! I dipinti di Leonora Carrington sono un tripudio di colori forti e decisi con figure fantastiche dalle qualita’ femminili e animali insieme. Elementi  fiabeschi si mescolano a simboli della cultura cattolica e indigena messicana. Mi ricordano i dipinti di Frida Kahlo, che come lei visse e trovo’ ispirazione a Citta’ del Messico. In comune la stessa vita tormentata. 

   Leonora Carrington proveniva da una famiglia benestante inglese dalla quale fuggi’ a diciott’anni per diventare la giovane amante di Max Ernst (famoso pioniere del surrealismo). Con lui a Parigi incontro’ Picasso, Dali’, il poeta Henri Breton e il regista Luis Bunuel . L’amore la porto’ a Madrid durante la guerra civile spagnola dove, poco piu’ che ventenne e in seguito ad un esaurimento nervoso, fu rinchiusa e legata al letto di un ospedale psichiatrico, quindi sedata con barbiturici ed elettroschock. Riusci’ a fuggire in modo rocambolesco e a rifugiarsi in Messico. Da allora il reale e il surreale si fusero inestricabilmente nelle sue tele.
 


Venerdi’ 13 marzo: giorno di ‘iella’ secondo la superstizione anglosassone. Forse e’ per questo che stamattina sento un incipiente mal di testa. Ripartiamo per la terra del Drago rosso, il Galles. Lungo la strada noto la scritta Holywell, la Lourdes del Galles, e mi sovviene che in una remota isola greca qualcuno mi aveva parlato di questo posto come di un noto luogo di pellegrinaggio cristiano, la fonte sacra. Insisto con mio marito (sedicente agnostico) per una breve sosta.

   Il ticket office e’ impregnato di un forte odore di muffa, addobbato da rosari in vetroplastica, medagliettie di vari santi cattolici compreso Padre Pio, statue in gesso della Madonna in tutte le dimensioni, santini, sacra sindone e quant’altro.

   “Desidera acquistare l’acqua della fonte sacra?” mi chiede il custode. Mio marito mi guarda perplesso e io declino l’offerta con un sorriso. Il signore mi spiega che la fonte d’acqua e’ sorta la’ dove e’ rotolata la testa di Santa Winefride, martire gallese decapitata nel settimo secolo da un corteggiatore respinto. La testa fu raccolta da un testimone dei fatti, riposta sul collo della vergine, che poi visse per altri 22 anni in un monastero. “E’ l’unica santa la cui morte si festeggia due volte, racconta il custode, il giorno in cui le e’ stata mozzata la testa e il giorno in cui e’ morta.” Altra occhiata di sconcerto da mio marito. Apprendo che il santuario e’ gestito dalla Societa’ delle divine vocazioni di Napoli.

   Visitiamo il tempietto gotico con la fonte d’acqua santa (costruito dalla nonna di Enrico VIII prima dello scisma da Roma). Poi riprendiamo lentamente la direzione di casa. Con me il sapore surreale e surrealista del mio viaggio/pellegrinaggio a Liverpool e dei suoi templi dove il sacro e il profano sembrano fondersi. 
Piove nelle montagne del Brecon Beacons."Back to reality!" dice mio marito con un sospiro.

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sabato 7 marzo 2015

St. David's Day



Oggi, primo giorno di marzo, e’ festa di St. David, il patrono del Galles. Cosi', di buon mattino mi avvio a piedi verso la suggestiva chiesetta del villaggio, che costituisce per la piccola congregazione (poco piu’ di una cinquantina di famiglie) un importante punto d’incontro. L' edificio e' antico: risale al 1100 ed e' costruito in pietra grigia locale su fondamenta pre-Normanne. Ora si erge come un’attempata signora su di un piccolo promontorio al centro del paese, addossata alla massiccia torre campanaria e cinta ai lati da pietre tombali vecchie e traballanti. Ai suoi piedi uno stagno dove ci sguazzano due coppie di anatre Germano reale.
   Mi avvicino alla facciata principale che presenta l' architettura normanna tipica di questi luoghi con portico a sesto acuto e  tetto d’ardesia. Spingo a fatica il grosso portone d'entrata che scricchiola e geme sotto il peso dei secoli. All’interno sono accolta in una cappella con volta a vela e i vetri a tessere di mosaico.
   "La nostra chiesa e' dedicata a Santa Tydfyl," mi spiega il Vicario, "una martire celtica del 500, epoca in cui i romani se n’erano gia’ andati lasciando dietro di se' non solo strade e accampamenti militari ma anche una diffusa contaminazione di lingua e DNA. "
   Noto che tutto il complesso avrebbe bisogno di un accurato face-lifting - le pareti in pietra calcarea sono segnate da ‘rughe’ profonde e trasudano umidita' centenaria - ma la crisi economica che attanaglia tutta Europa ‘morde’ anche da queste parti e decisamente di soldi per restaurare la piccola chiesa non ce ne sono.
   Altra considerazione personale: a casa, in Italia, non ero tra le schiere di fedeli domenicali. Ma qui, non so bene il perche’, nella chiesetta del villaggio ci vengo volentieri. E ho anche stretto le mie prime amicizie. Certo pero’ che oggi non mi aspettavo una messa per meta’ celebrata in ... lingua celtica. “In onore di Saint David” -chiarisce il Vicario dal pulpito, “che in questa terra fondo’ nel 500 la Celtic Christianity.”
   Apprendo cosi’ che Saint David, monaco gallese vissuto all’epoca del mitico Re Artu’(anche lui di questi luoghi), e’considerato un San Francesco locale per il suo amore verso gli animali e la regola ispirata ad una vita semplice e ascetica, al punto che ai suoi monaci aveva prescritto di trainare l’aratro a braccia senza l’aiuto dei buoi.

   ... Calon onest, calon lan, yn llawn daioni, Tecach yw na’r lili dos, Dim ond lan all ganu....

 cantano i fedeli in coro (io esclusa), che significa piu’ o meno:

   ... Chiedo un cuore onesto, puro e gioioso. Solo un cuore puro puo’cantare di giorno e di  notte...

   Mi guardo attorno un po’ perplessa. Tutti sono in piedi, rapiti nell’estasi della melodia, alcuni con la mano destra appoggiata al petto. Nonostante i miei innumerevoli tentativi in questi sei anni di vita gallese, la lingua celtica non riesco ancora a ‘masticarla’. E’ gutturale e dura quanto le miniere di carbone che abbondano in queste valli. Altra cosa e’ la sua gente, un popolo fiero della propria identita’ culturale, linguistica e storica. Ma soprattutto della semi-autonomia politica dalla sovranita’ della vicina Inghilterra, della quale fa parte. Forse non tutti sanno che il Regno Unito e’ formato da quattro Paesi (Galles, Scozia, Irlanda del Nord e Inghilterra) e ha quattro nazionali di rugby e quattro nazionali di calcio.
   Oggi mi sento davvero ‘un pesce fuor d’acqua’ e non so bene cosa fare. Ma poi ecco: tra me e me considero che i Celti sono vissuti anche la’ dove sono nata, nell’Italia orientale, dove ancora sussistono le loro tracce in certi suoni e vocaboli del dialetto veneto e forse... si, forse non sono poi cosi’ alieni dalle mie radici...
   Come un'onda, l’estraniamento iniziale per questa terra di draghi e narcisi selvatici (entrambi simboli del Galles), dove il cielo ha spesso il colore dell’ardesia e il verde intenso si perde nelle rotondita’ delle sue colline, sfuma lentamente lasciando spazio a ... un cuore semplice e gioioso... e, seppur titubante, mi alzo in piedi e con la mano appoggiata al petto mi unisco al coro della piccola comunita’:

    ... Calon onest, calon lan, yn llawn daioni, Tecach yw na’r lili dos, Dim ond lan all ganu...


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sabato 28 febbraio 2015

Francesca


Nelle acque spumose di una vasca idromassaggio in una cittadina del Sussex, i miei piedi urtano contro quelli di una signora dai capelli color platino e gli occhi grandi e scuri.
   “Mi scusi...” ma poi  mi correggo, “oh, sorry!” e rifletto sul mio italiano ancora cosi’ istintivo, nonostante gli anni trascorsi in Inghilterra.
   “Anch’io sono italiana” risponde la signora “e mi scuso tanto per il mio orribile accento inglese.”
   Sorpresa e incuriosita decido di approfondire la conoscenza. Questa e’ la storia di Francesca, settantacinque anni di eta’, figlia di una coppia di emigranti italiani.

 “I miei genitori erano emigrati a Londra” racconta con un percettibile accento toscano. “Se n’erano andati dall’Italia negli anni trenta, cosi’ come molti loro connazionali. Provenivano da un villaggio vicino a Lucca. La poverta’ e la fame non avevano dato loro altra scelta se non lasciare la loro terra e cercare lavoro oltre Manica. Cominciarono con un piccolo business di pesce e patate.”
   “Ah ... fish and chips” dico io.
   “Si, si, pesce e patate, per l’appunto. Con l’entrata in guerra dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, nel 1940, i due Paesi si ritrovarono dalla parte opposta. L’Italia fascista era alleata della Germania nazista mentre l’Inghilterra stava con la Russia comunista di Stalin.”
   “Gli italiani diventarono i nemici, e’ cosi’?”
   “Si, solo per la ragione di essere nati in Italia. Per ordine di Churchill tutti i maschi italiani di eta’ compresa tra i 17 e i 70 anni furono radunati nel cuore della notte, strappati alle loro famiglie e internati in campi di prigionia inglesi.”
   Ne ero a conoscenza. In Galles, proprio vicino al nostro villaggio, c’e’ un vasto terreno verde recintato dove mi e’ stato detto si trovavano le baracche dei prigionieri politici. Ci tenevano i tedeschi ma anche molti italiani. Ho saputo dai miei vicini che gli internati furono assistiti dalla popolazione locale che portava loro da mangiare. Tant’e’ che sono nate delle amicizie e a guerra finita alcuni ex-prigionieri decisero di fermarsi, spesso sposando le ragazze che li avevano aiutati.
   “Comunque” continua Francesca sull’onda dei ricordi “io ero piccola quando mio padre fu rinchiuso nell’Isola di Man, al largo delle coste britanniche, nel mare d’Irlanda. L’Isola di Man era conosciuta tra i prigionieri per essere la piu’ dura. Con lui c’era anche Carlo Forte.”
   “Quello della famosa catena d’alberghi e ristoranti?”
   “Si, proprio lui, il capostipite del gruppo. E’ li’ che e’ nata l’amicizia tra Forte e mio padre.”
   Il tono di Francesca si fa piu’ amaro: “Fatto sta che gli inglesi a Londra si erano messi a controllare tutti i documenti e le lettere degli italiani rinchiusi. Vengono cosi’ a scoprire che mio padre aveva inviato una busta in Spagna contenente dei soldi.”
   “In Spagna, perche’ mai? La famiglia non abitava in Italia?”
   “Deve sapere che allo scoppio della guerra civile spagnola un circolo di italiani a Londra aveva organizzato una colletta tra i connazionali per aiutare, cosi’ era stata pubblicizzata la cosa, gli ‘amici spagnoli.” I soldi raccolti erano stati inviati in Spagna per aiutare le forze monarchiche contro le forze repubblicane. Di fatto la monarchia spagnola (come la controparte italiana) sosteneva i fascisti franchisti che combattevano contro i repubblicani, quest’ultimi aiutati dalla Russia comunista di Stalin, alleata dell’Inghilterra.”
   “Ma perche’ sacrificare quei pochi soldi guadagnati a fatica per una guerra che non li riguardava?”
   “ Vede, quelli erano altri tempi. Non era poi cosi’ facile capire cosa era giusto fare. L’ordine era arrivato dall’ Italia. Si doveva collaborare. E mio padre, forse piu’ per ingenuita’ che altro, vi aderi’.”
   “Credo di capire: i suoi genitori erano scappati dall’Italia per rifarsi una vita ma, in un certo senso, erano caduti dalla padella alla brace...”
   “Si. La reazione degli inglesi non si fece attendere. Mio padre fu considerato un traditore e una spia al soldo del regime fascista italiano. Pensavano che avesse legami diretti con i fascisti di Mussolini in Italia. Per farlo parlare fu pestato a sangue... Perse persino l’uso delle mani e le sue lettere a mia madre le dettava all’amico Forte che le trascriveva. Poi fu rispedito a casa.”
   “A casa... in Italia?”
   “Si, ma solo per morire.” Francesca si guarda attorno e sospira. “Mio padre aveva fegato e reni spappolati dalle botte e i calci che gli avevano dato.. sopravvisse solo pochi giorni.”
   E’ la prima volta che ascolto la testimonianza diretta della vita di un italiano rinchiuso in un campo di prigionia inglese e morto a causa delle privazioni e la violenza subita. La mia emozione e’ grande, cosi’ come e’ vivo il dolore di Francesca. Restiamo in silenzio.
   Dopo un attimo di esitazione, le chiedo “Ma... ... che cosa e’ successo dopo? Siete stati aiutati?”
   “Mia madre decise di rimanere con la famiglia in Inghilterra, dove almeno aveva un minimo di lavoro. Ma la vita per noi italiani era diventata difficile anche dopo la fine della guerra. Difficile, se non impossibile. Fu cosi’ che io decisi di trasferirmi a Roma. Diventai insegnante in una scuola internazionale. E’ li’ che ho conosciuto mio marito ... un inglese. E cosi’ sono tornata in Inghilterra dove vivo, anche se il mio cuore e’ spezzato tra l’amore per la famiglia e l’amore per il Paese dei miei genitori.”
   Ci alziamo dal jacuzzi. Francesca ha gli occhi velati e quando riprende a parlare, le parole escono a fatica: “Mi scusi, ma sono molto stanca... meglio se vado...” Si avvia lentamente  con passo incerto, poi aggiunge senza voltarsi indietro: “L’aspetto per un caffe’, la prossima volta che viene da queste parti.”

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martedì 10 febbraio 2015

Che cosa cucini per il te’ stasera? Il rito del te' in Inghilterra

                                     
La domanda degli amici gallesi mi aveva lasciato piuttosto perplessa: che senso ha mettersi ai fornelli per una tazza di te’? E poi il te’ all’ora di cena... Uhm ... E’ cosi’ che ho deciso di indagare la consuetudine tutta britannica della tradizionale cup of tea. Di fatto mi sono addentrata in un universo intricato e... intrigante.
     Il te’, termine solo in apparenza umile e routinario, nasconde in terra anglosassone mille significati e sfaccettature. E’ diventato la quintessenza della britannicita’ nel mondo. La mia indagine mi ha portato alla conclusione che quando si tratta di te’ in Inghilterra la cosa diventa complessa quanto il caffe’ (o il vino) in Italia.
     Per prima cosa il te’ va rigorosamente preso con una goccia di latte freddo e non con una fetta di limone. Italiani mettiamoci il cuore in pace: ogni volta che l’ho chiesto, il limone non l’ho mai trovato... Poi, anche arrendendoci seppur a malincuore all’uso del latte, la cosa non e’ cosi’ semplice. Infatti, se il te’ anziche’ in tazza viene servito da una fumante pot of tea, la classica teiera, allora consuetudine vuole che prima si versi il latte nella tazza e successivamente il te’. I puristi anglosassoni affermano che qualora la procedura fosse invertita (ossia prima il te’ e poi il latte), cambia sensibilmente l’aroma del te’. In peggio!
     Se parliamo del tipo di foglie alla base della bevanda, allora esiste un'ampia varieta’ di te’ in commercio con una diversita’ di aromi tali da soddisfare ogni gusto (Black, Green, Yellow, White, Oolong ..) e in cui il livello di tannino cambia sensibilmente. In genere comunque si va dal piu’ forte del mattino, il Breakfast tea, al piu’ leggero del pomeriggio e sera, il Darjeeling. Il mio preferito e’ l’Earl Grey, una varieta’ di te’ nero aromatizzato al bergamotto. Ma il piu’ comune e’ senz’altro il te’ chiamato Builders’ tea ossia il te’ dei muratori che si prende nella caratteristica mug. E’ un intruglio denso e scuro e cosi’ forte da  assolvere la stessa funzione del nostro caffe’ ristretto del mattino. Praticamente da’ la sveglia!
     Tuttavia il termine Tea indica non solo la bevanda in se’ ma il social event che lo accompagna. Il te’ diventa cosi’ un’occasione d’incontro e di mondanita’. Di tradizione il te’ si prendeva nelle Tea Rooms, le eleganti e raffinate sale da te’  d’inizio secolo, ma oggi e’ facile trovarlo nei Coffee o Tea shop del centro citta’. Un classico e’ il Cream tea in cui il te’ viene servito con scone (focaccine calde), panna rappresa e marmellata.
     Di gran voga oggi e’ l’Afternoon tea, ovvero il te’ del pomeriggio, un rituale piuttosto formale e ricercato che e’ iniziato durante il regno dalla Regina Vittoria. E’ in genere servito tra le 4 e le 6 del pomeriggio in apposite tea rooms all’interno di ristoranti e alberghi. Consiste in un mini pasto dolce e salato, a base di piccoli tramezzini, fingerfood, biscottini e dolcetti vari accompagnati da panna, marmellata e gelatine al liquore. Tutte queste delizie sono disposte in una alzatina a tre piani e accompagnate da una teapot dell’aroma di te’ selezionato. Il costo puo’ variare dalle 15 alle 25 sterline e piu' a persona. E' una tradizione che gli inglesi devono aver esportato nelle loro ex-colonie perche' la prima volta che mi  e' stato servito ero a Kuala Lumpur in Malesia durante il mio viaggio di nozze.
     Dall’800 arriva anche l’ High Tea, ma la sua origine e’ meno mondana e aristocratica dell’Afternoon tea. Infatti ha radici popolari in quanto e’ iniziato con l’abitudine degli operai che rientravano  dal lavoro (affamati) dopo le 6 di sera di consumare in casa un vero e proprio pasto (senza dover aspettare fino a cena).  Questo era a base di pane, formaggio e prosciutto o altro insaccato accompagnato da una tazza di te’.
Ancora oggi nel Nord dell’Inghilterra e in Scozia vi e’ la consuetudine di usare il termine High Tea per indicare la cena, mentre il pranzo (quello che solitamente e’ il lunch) lo chiamano dinner....
     In Galles dove abito Tea e’ sinonimo di  una cena leggera, servita verso le sei di pomeriggio, quella che altrove si chiama dinner o supper... La tazza di te’ e’ pero’ sparita dal menu’. Insomma un vero rompicapo! Potete mmaginare quindi la mia reazione la prima volta che mi e’ stato chiesto che cosa avrei cucinato per il te’ della sera (intendendo, che cosa avrei cucinato per cena).   
     You must be joking.... Ma quale te’, ho risposto indispettita, a casa mia di sera si beve un bicchiere di buon vino!”

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